La storia  della CANTINA SOCIALE …
a cura dei Cantinieri superstiti

È la storia della nascita, solo a prima vista casuale, di un moto di aggregazione di persone che sembrano fra loro molto dissimili, ma accomunate dall’obiettivo – forse obiettivo è dire troppo quando, almeno in apparenza,le cose si creano in maniera spontanea – dal bisogno di liberarsi dagli immondi miasmi di una vita quotidiana divenuta quasi estranea, da quegli effluvi di…pirite che a tutti danno un po’ alla testa, e che solo una vera sana trasgressione sa dissipare.

Dalla Premessa del Libro “5 anni in Cantina” di Luigi Zappacosta

 

 

 

 

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Ass.ne

 

LA

CANTINA

SOCIALE

 

 

 

Che potrebbe succedere se un giorno le pecore, stanche

del loro ruolo,si imponessero in una veste diversa?

 

 

 

 

Nessuno si arrabbia se viene definito leone o magari volpe,per non parlare di aquila. Eppure questi animali non producono lana, latte né carni commestibili. Chiunque invece s’offende se viene chiamato pecora. Questo mi ha fatto molto riflettere, e debbo dire che l’ho trovato profondamente ingiusto nei confronti delle pecore. Tanto più che anche se ce ne risentiamo, in fondo sappiamo benissimo di essere in molti a comportarci come pecore,e così come un solo pastore con l’aiuto dei suoi cani tiene a bada un grande gregge di ovini, allo stesso modo qualche pecoraio politico ci tiene a bada per tutta la vita mungendoci instancabilmente.

“Che potrebbe succedere se un giorno le pecore, stanchedel loro ruolo,si imponessero in una veste diversa?” La domanda, anche se non formulata da Alberoni, mi sembra di grande interesse.

Da questa ipotesi nacque il “Grande Palio delle Pecore”, allegorica rivalsa dell’ovino che reclama una sua nuova dignità e nuovi spazi esistenziali. Questi spazi, in attesa dello scioglimento della metafora, erano confinati, nella rappresentazione, ad un “pecorodromo”, ossia una sorta di pista circolaredelimitata da balle di paglia con rinforzo alle curve . In questo anello (il luogo dove si svolgeva il “Palio”, ossia il soprannominato “pecorodomo” era  la Piazza Italia di Piano d’Orta naturalmente), in un particolare giorno dell’anno, si svolgeva nel Borgo (Piano d’Orta) una singolare corsa. Le regole della competizione erano semplicissime, addirittura una sola : l’uomo che accompagnava l’animale,pena la squalifica, non doveva neppure affiancarlo, ma restargli sempre rigorosamente dietro ed era ad esso collegato per mezzo di una corda a mò di guinzaglio. In effetti, era la pecora, se lo voleva a, a tirare l’uomo, e non sempre l’animale tirava nella direzione che l’uomo avrebbe desiderato: il traguardo. La metafora, già così bella, si arricchiva di considerazioni, oserei dire, metafisiche. Non era forse la pista come la vita? Nel corso della gara spesso intrecci ed ingorghi favorivano improvvise cadute, il repentino impuntarsi degli animali terrorizzati dalle urla degli spettatori faceva sì che un altro concorrente potesse inattesamente avanzare. Ed io in questi imprevisti gravi o solo molesti vedevo le ambasce quotidiane, i sogni infranti, gli eventi che si insidiano giorno per giorno incuranti del nostro volere. Come in ogni gara c’era alla fine un vincitore, ma siccome nella vita in fondo nessuno vince - e sorella Morte può toglierci ogni dubbio in proposito- l’unica vera vincitrice era la pecora, e anche le compagne peggio piazzate godevano di una loro particolare vittoria rispetto all’uomo, facendosi beffe di tanti schiamazzi con quell’espressione statica che caratterizza questi animali, che non attesta, come spesso si vorrebbe far credere,ottusità, ma che, a ben guardare, è invece esempio magistrale di ironia distaccata e superiore.  Il volgo molto s’appassionò al Palio delle Pecore,ogni quartiere (Buscesi, Piazza Donegani, Piazza Enel, Via Provinciale ecc.) approntava la propria concorrente allenandola allo scatto e curandone l’aspetto estetic, dandole un nome,magari un po’ ingenuo, ma carico di affetto, come Gelsomina, Adelina, Rosina…

 La gara era vissuta come ricerca di supremazia di un rione rispetto agli altri, e il     

 bastone con campanaccio simbolizzante la vittoria presto divenne un’ambita preda. 

 Ma oltre alla coreografia pressoché holliwoodiana non si andò mai, nessuno tranne

 noi volle prendere coscienza della metafora, forse perché non la vedevano, o forse

 perché essa aveva un gusto in fondo un po’ amaro.                                                                                                                   

 

 

Pagg. 71 e 72 del Libro “5 anni in Cantina” di Luigi Zappacosta

 

 

 

 

Padre Clemente e la Processione del Venerdì Santo

 

 

 

 

      Sotto il….. pastorato di Padre Clemente (Padre Clemente Di Pretoro resse la Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Piano d’Orta dal 1979 al 1987)  ripresero anche le processioni, anche se con piccole varianti che la Cantina Sociale suggeriva; ad esempio, durante una processione del Venerdì Santo, tornò buona la famosa sirena della gita (una sirena manuale che fu utilizzata durante una gita organizzata dalla Cantina Sociale alla volta di Roma). Al passaggio del corteo (processione) davanti alla cadente porta principale  dell’ex fabbrica (trattasi del cancello principale in Via Nazionale dell’ex Fabbrica Montecatini di Piano d’Orta), il suo suono lacerante rievocò per un lunghissimo attimo i tempi in cui la sirena vera della fabbrica scandiva i tempi e la vita del Borgo (Piano d’Orta). Quel suono imprevisto suscitò nel cuore dei presenti il ricordo di volti ormai lontani; di qualcuno troppo lontano per poter tornare, di altri che avevano dovuto raccattare le loro povere cose e cercare altrove miglior fortuna per sostentare e sfamare le loro famiglie quando la fabbrica per sempre aveva chiuso i battenti (anno 1965).                                       La sirena suonava per i vivi e per i morti. Per i vecchi che subirono le tracotanti decisioni del padrone circa la chiusura di qualcosa che rendeva abbastanza ma non troppo; per i giovani che non meno ne pagarono le conseguenze per la privazione, oltre che del lavoro, di una identità sociale di cui restavano come traccia solo i ruderi.  Su un cancello arrugginito dell’opificio in rovina la Cantina Sociale aveva srotolato un lenzuolo bianco come un funebre sudario e su di esso una scritta a grossi caratteri ricordava il sacrificio di Cristo e lo accomunava al sacrificio di tanti uomini che dietro quel cancello consumarono la loro esistenza obbedendo a leggi economiche e di profitto spesso inique, alle quali certo non credevano, ma che sopportavano pur di assicurare ai loro figli l’istruzione che loro non avevano avuto e l’illusione di un domani migliore. Andò invece come queste cose di solito vanno.                                                                                     

 

 

Pagg. 98 e 99 del Libro “5 anni in Cantina” di Luigi Zappacosta

 

 

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